Dopo il PM Beatrice, anche Guido Rossi si trincera dietro un “Non sapevamo nient’altro”. Cioè: conoscevamo le telefonate delle squadre e dei tesserati sotto processo sportivo e niente più. L’uomo dell’assegnazione dello scudetto 2006 a tavolino o meglio, colui il quale non ha mai assegnato lo scudetto all’Inter, ma ha solo diramato una nota stampa ha deciso ieri che il silenzio avrebbe danneggiato la sua posizione. E così venerdì ha fatto pervenire alla Federcalcio la sua verità: non un intervento pubblico ma una comunicazione scritta al Consiglio federale. E’ stato il presidente federale Abete a svelare il contenuto delle parole di Rossi, secondo cui non risultavano a lui e all’Ufficio Indagini presieduto allora da Francesco Saverio Borrelli, informazioni su “tesserati diversi da quelli oggetti di deferimento” (eppure Borrelli chiedeva di non fermarsi poiché aveva il sentore che ci fosse dell’altro – strano, molto strano). Quindi, né lui né l’ex capo del pool di mani pulite erano a conoscenza dell’identità dei protagonisti delle telefonate bis, anzi delle stesse telefonate dell’Inter e delle altre sette squadre analizzate nella recente relazione Palazzi che ha evidenziato la violazione da parte dei nerazzurri nientemeno che dell’articolo 6. In pratica, nei quattro mesi della sua gestione da commissario, da maggio a settembre 2006, Guido Rossi non ebbe sentore di nessuna telefonata accantonata o dimenticata o come volete voi, rispetto a quelle su cui si stava indagando. Una posizione che in qualche modo sembra scaricare ogni eventuale responsabilità su chi gestì l’inchiesta penale: il colonnello Auricchio e i pm Beatrice e Narducci. L’impressione è, come ha affermato qualche giorno fa Luciano Moggi, che continuano a prenderci per ebeti.