Paolo Rossi era solo in una fredda sera di novembre. Corricchiava su un campo mentre scontava la squalifica del calcioscommesse. Un contesto più triste del passare il Natale da soli. Bearzot lo andò a trovare, lo notò ingrassato, imbolsito. Gli chiese “ci sei ancora? Perché se lì dentro ci sei io vorrei portarti con me ai mondiali”. Rossi lo guardò come si guarda un uomo che ormai è preda di una demenza senile. Durante la finale Italia-Germania, Rossi ha già segnato il suo sesto gol e sta portando l’Italia al trionfo. Il raddoppio di Tardelli è opera sua. Lui dovrebbe solo attaccare, dovrebbe stare lì davanti, ha già ucciso il Brasile e la sua sicumera di aver passato il turno. È risorto dopo un mondiale fallimentare fino a quel punto. Va a prendere palla in difesa, la toglie ai tedeschi, poi corre come un invasato e la va a sradicare subito dopo a Conti che sembra confuso. Sventaglia a Scirea e da lì partirà il 2-0 di Tardelli. Perché noi siamo i nostri fantasmi.
Le gite fuori porta e le volte che non abbiamo voluto più che i genitori ci portassero a scuola. Le carezze e i baci dati con leggerezza giovanile che avrebbero pesato quando la vita diventa un collo di bottiglia e tutto si fa prezioso. Siamo la polvere leccata perché non riusciamo più nemmeno a masticarla. Siamo gli stracci che indossavamo nelle partite in strada in cui eravamo convinti di essere Rossi che castigava i semidei da umano, normale, ordinario, come noi. Un mortale.
Vulnerabile e consapevole di esserlo. E per questo prodigioso. Siamo quelli che speriamo un giorno freddo e senza speranza che qualcuno ci dica “sei lì? Ci sei ancora? Perché io credo in te.”. Anche quando noi non crediamo in noi. Perché qualcosa fa male. Ma si prova a rialzarsi. Indossando uno straccio col 20 sulla schiena e dicendo “facciamo che ero Rossi contro il Brasile”.
Di Roberto Pontillo