Roberto Bettega compie oggi 60 anni, che per lui non sono una tappa di cui parlare. «Quello che conta è che sono nei secondi 50 anni in cui mi aspetto di fare ancora altre cose. Un giorno forse ne parleremo». Bettega è sempre stato l’uomo dei rinvii. Da quando si fece conoscere che non aveva ancora vent’anni mai che parlasse di quanto gli stava accadendo. «Ci sentiamo la prossima settimana», prometteva. Eri sicuro che non l’avresti sentito più. Diffidente. Evasivo. Di una riservatezza strabordante. Non ha mai amato i giornalisti perché sono troppo curiosi nè ha mai cercato di risultare simpatico ai compagni e agli avversari perché non gliene fregava niente.\r\nUn ultrà e un simbolo della Juve, non solo per i 7 scudetti e perché è il terzo tra i goleador di sempre dopo Del Piero e Boniperti. «Quando mi proposero di allenare la Juve – raccontò Lippi anni fa -, non era proprio la squadra che avevo nel cuore perché ricordavo il modo in cui ci trattavano quando giocavo nella Samp. Ti facevano sentire una nullità. Chi in particolare? Bettega». Il quale in quel momento gli stava al fianco. Però che giocatore. Quando ci imbattiamo nelle valutazioni di oggi, ci chiediamo quanto sarebbe costato e quanto avrebbe potuto chiedere di ingaggio un fuoriclasse completo come lui. Aveva la tecnica affinata da bambino alla scuola di Pedrale, un Geppetto del pallone prima dell’avvento dei finti scienziati. E poi l’intelligenza tattica, il fisico potente, i piedi buoni del rifinitore, il colpo di testa fulminante, l’elevazione del pallavolista che sta in sospensione quell’attimo più degli altri. E la cattiveria. «Prendevo tante botte», ricorda parlando di quei tempi. Glissa su quante ne dava, piantando i gomiti sulle spalle del marcatore mentre saliva in elevazione.\r\nA 60 anni forse non è l’ora dei bilanci definitivi per chi conta di restare nel calcio, anche se adesso il suo ruolo è tornato quello di opinionista televisivo che lo vide precursore del genere e al «Processo» di Biscardi abbandonò in diretta la compagnia perché stavano attaccando la Juve. Tuttavia qualche somma si può tirare. Il bilancio è assolutamente straordinario da calciatore, nonostante la tubercolosi che lo fermò per quasi un anno nel ’72 e il ginocchio frantumato dal portiere belga Munaron, che lo escluse dal Mondiale dell’82. Il resto l’ha fatto il dirigente, l’uomo della Triade voluto da Umberto Agnelli come sigillo di juventinità per i tifosi che all’inizio non amavano Moggi e tantomeno il granatissimo Giraudo. Non abbiamo mai capito quale sia stato realmente il suo apporto. L’inchiesta di Calciopoli da cui non fu toccato a differenza dei suoi compagni di viaggio fa supporre che non fosse l’uomo che schiacciava i bottoni, così come il ritorno nella dirigenza un anno fa non ne fece il salvatore della patria. Per questi primi 60 anni preferiamo di gran lunga il Bobby gol che fece sognare due generazioni di juventini. Per i prossimi ve lo sapremo dire nel 2070.\r\n\r\n(Di Marco Ansaldo per ‘La Stampa’)