C’era una volta la Juventus. Così, di solito, cominciano le favole. E le crisi. Il Chievo veniva da tre k.o. e non l’aveva mai battuta. Prego, s’accomodi. Sette sconfitte nelle ultime dieci partite, coppe incluse: questo è ciò che resta del famigerato progetto. Fuori dallo scudetto, fuori dalla Champions e, da ieri, persino dalla zona Champions: un disastro su tutta la linea. Le notizie della domenica sono due: il Milan di Ronaldinho a sei punti dall’Inter, in attesa del derby di domenica e del recupero di Firenze; il sorpasso di Claudio Ranieri. Roma 35, Napoli 34, Juventus 33. Bianconeri quinti in classifica; e sabato sera, con la curva Scirea chiusa per razzismo, Juventus-Roma. Ciro Ferrara non si dimette, la società non lo licenzia. Per ora.\r\nRanieri non piaceva ai professorini del web e a una congrua fetta della stampa torinese. Per carità: di Mourinho ce n’è uno e Claudio rimane un seminatore, non un raccoglitore. Se ne trovano di migliori, che discorsi, basta conoscerli, basta pagarli. Appunto. Violentando la storia societaria, Blanc lo cacciò a due tappe dal traguardo. La squadra era in crisi (non come oggi, sia chiaro) e lo spogliatoio spaccato: il pranzo del Triade con Lippi aveva isolato l’allenatore. Ferrara, così acerbo, avrebbe avuto bisogno di mani esperte. La solitudine l’ha trasformato in un giro di roulette. Quattro vittorie consecutive e poi un feroce declino. Il dramma (sportivo) è che la Juve, da Diego a Del Piero, non gli gioca contro per il semplice fatto che un gioco non ha più; il guaio è il nulla che emerge dai titolari o sedicenti tali, zero tiri in porta a Verona e forse un paio tra Parma e Milan. Forse. Neppure la Juve di Ranieri incantava, ma se non altro cucinava gli episodi e li divorava, golosa.\r\nLa scossa non arriva mai. Al contrario: le crepe si allargano, i feriti aumentano, i Melo e i Marchisio peggiorano. Ci voleva poco a capire che il 3-0 al Napoli costituiva un cerotto leggero; e la doppietta di Del Piero, un ambiguo segnale di fumo. In questi casi, paga il tecnico. C’è un però, e riguarda il mercato. Domanda: se l’Inter prende Pandev, la Roma Toni, il Milan Beckham e la Juventus Paolucci, perché dovrebbe essere esonerato «soltanto» Ferrara? Ci ha messo la faccia, Bettega. La faccia e la lingua. I numeri vanno letti ma non tifano: è il primo a saperlo, anche se l’orgoglio l’ha spinto a sbagliare tono. Siamo a un bivio che dura da venti giornate meno quattro. La squadra non crede più nella società, la società non crede più nella squadra: ecco lo scenario che si ricava da come annaspa la Juve, il cui ultimo gol su azione (e non da calcio d’angolo) risale al 20 dicembre, quando persino il Catania, all’epoca fanalino di coda, passò all’Olimpico, determinando il ritorno di Bettega.\r\nIl fallimento dovrà portare a chiarimenti drastici a tutti i livelli: al vertice, in panchina, nello staff medico. Da Blanc a Lippi. Al netto di pronostici sin troppo generosi, John Elkann si prepari a ripartire da zero, o quasi. Ci può stare di perdere col Chievo. Non così, però: con la virilità di Cappuccetto Rosso. Il monte infortuni, comune a tutti i club, nella Juve ha toccato picchi imbarazzanti. La fiducia di Bettega a Ferrara è un atto «ufficiale», come l’uscita di Buffon («Questa squadra non è degna della storia juventina») e il conclave dei giocatori alla vigilia del Napoli. L’ingorgo in zona Champions complica i piani. Non si può pensare di uscire dalla crisi facendo rotolare una testa sola, la più comoda.\r\nSabato sera, Ranieri. Venne precettato d’urgenza da Rosella Sensi all’indomani del 3-1 che Ferrara aveva inflitto all’ultima Roma di Spalletti. Doppietta di Diego, fucilata di Felipe Melo. Era il 30 agosto. Un secolo fa.