A immagine e somiglianza dello juventino modello, Pavel Nedved dovrebbe essere la buona novella a portata di occhi e voce dei giocatori di oggi, su cosa significhi indossare l’uniforme bianconera. Dalla testa alle gambe, che domenica a Lecce proprio non si sono presentate.\r\n\r\nIn fondo, Andrea Agnelli ha voluto con sè l’icona diventata amico, tra pallone e golf, pure per la sua indole da battaglia. Basti una delle massime dell’ex campione ceco: «Puoi anche non vincere, ma devi avere una mentalità vincente. E io sono stato scelto anche per trasmettere questa idea, quella che avevamo nel gruppo storico». Da manifesto juventino, per il presidente. D’ora in poi l’esempio sarà ancora più vicino alla squadra, a Vinovo: per certe cose bastano presenza e parole, senza bisogno di gradi o incarichi. Nedved continuerà così ad avere quello di membro del cda bianconero, dove è entrato con la curiosità dell’apprendista perché una società quotata era universo inesplorato, mettendo però al servizio la fenomenale esperienza sul prato, con quella maglia appunto.\r\n\r\nNon a caso, ieri Pavel è stato l’ultimo dirigente a lasciare il campo, nel pomeriggio, e non è un caso che, prima dell’allenamento, fosse al fianco del presidente, per il discorso alla squadra, negli spogliatoi. La mattinata era invece filata via tra ripetizioni del video degli orrori, la partita di Lecce, e colloqui a quattr’occhi tra Del Neri e i giocatori. Dopo pranzo è arrivato a Vinovo lo staff di comando: oltre ad Agnelli e Nedved, l’ad Beppe Marotta e il coordinatore dell’area tecnica Fabio Paratici. Sigillata la porta, ha parlato il presidente. Il messaggio di Agnelli ha sostanzialmente seguito le linee già tracciate il giorno prima davanti ai microfoni: l’approccio alla gara è stato disastroso e fallire a Lecce è stato un terribile spreco per gli obiettivi stagionali. Ora bisogna voltare pagina in fretta, già da sabato, e cercare di non avere più questi black out. Oltre alla tecnica, e al risultato, è una questione di spirito e atteggiamento, sostiene il numero uno bianconero. Di «orgoglio gobbo», insomma, come disse all’assemblea dei soci. I giocatori hanno ascoltato in silenzio: la maggior parte, ampiamente cosciente della figuraccia fatta. E per questo incavolati, di brutto, a partire da se stessi. Spiegazioni tecniche non ce ne sono state, semplicemente perché la sciagurata gita in Puglia rasenta il soprannaturale: sul campo c’erano gli stessi che avevano steso l’Inter, e la settimana di preparazione era scivolata via senza infortuni e altri impegni.\r\n\r\nDev’essere davvero faccenda neuronale, di concentrazione e applicazione. Per questo aver più spesso a bordo campo la furia agonistica di Nedved potrà far comodo. Per indole e ostinazione, lui era un killer: «Per carattere – ripeteva solo una settimana fa – io penso sempre positivo. La partita con l’Inter sarà dura, ma le cose facili non esistono». Poi aveva sparso fiducia: «Di questa squadra apprezzo la compattezza, il gruppo e l’unità nei momenti difficili». Quella che servirà ora, come non mai. Su come riassettare la mente, Pavel può dare di certo buoni consigli. Uno che appena vinta una partita, aveva già nel mirino la prossima: «Non c’è da fare nessuna festa, non ce n’è bisogno – quasi sbottò il giorno dopo la vittoria sui nerazzurri – perché la Juve era sempre abituata a vincere, e ha vinto una partita che valeva tre punti. Adesso bisogna rivincere domenica, che vale altrettanto». Non l’hanno ascoltato.\r\n\r\n(Di Massimiliano Nerozzi per ‘La Stampa’)