Si fa persino fatica a riconoscerlo, quel signore grande e grosso con i capelli lunghi che corre e scatta in mezzo a un pugno di ragazzini. Si chiama Amauri Carvalho de Oliveira, ed è proprio quell’Amauri lì, l’uomo inseguito con un passaporto perché andasse ai Mondiali con Lippi. Sono passati 18 mesi, e il centravanti che doveva salvare il calcio italiano adesso aspetta qualcuno disposto a salvare lui. Dalla solitudine di Vinovo e dal muro di gelo dentro cui lo tiene la Juve, la società che fu di Scirea e Boniperti.\r\nLa sua colpa è aver rifiutato il trasferimento al Marsiglia. È rimasto e ora ha un’altra stanza in cui spogliarsi. Insieme ai Primavera. Da un mese i compagni sono altrove, o forse sarebbe meglio dire che altrove è lui. Tra un Niccolò Corticchia e un Leonardo Spinazzola, la Juve vera è distante e in cima alla classifica. Orari differenti al campo, al massimo si incrociano al parcheggio, ciao, ciao, ormai grosse chiacchierate non ce ne sono più. Amauri potrebbe giocare il campionato giovanile da fuori quota. «Ma non voglio dar fastidio all’allenatore», la frase che ripete più spesso. L’allenatore da non disturbare è Marco Baroni, difensore anni ’90 che segue i diciottenni. Ad Amauri è stato concesso di far parte dei suoi schemi in settimana, almeno c’è qualcuno che ogni tanto gli fa un cross.\r\nÈ diventato l’incarnazione del famoso articolo 7 del contratto collettivo: la libertà dei club di mettere fuori rosa. Era sulla bocca di tutti un mese fa, un principio che spinse il sindacato a scendere in sciopero il 28 agosto. Ora che dal principio siamo al caso, dove sia finita quella battaglia non si sa. È nel vuoto legislativo che galleggia l’esclusione con anestesia di Amauri. Che non pensa a far causa. Primo: spera che nel club da lui considerato il migliore al mondo possa aprirsi ancora un’opportunità, com’è capitato a Grosso. Secondo: i collegi arbitrali non sarebbero convocati per deliberare prima di mesi. Tanto vale aspettare il mercato di gennaio, farsi trovare in forma. «Tu sai cosa voglio davvero», ripete ogni sera Amauri a sua moglie Cynthia, conosciuta nel 2001 a Napoli, dove era la segretaria di un chirurgo plastico. Lei, che al primo giorno in casa Juve si vestì in tinta, polo nera e pantaloni bianchi. «Voglio tornare in nazionale», le dice. Se rivincita deve essere, che sia enorme. È questa la pazza idea di un centravanti cui hanno tolto pure la maglia. Quando a fine mercato la Juve lo mette «fuori dal progetto», la sua 11 passa a De Ceglie. Amauri deve sceglierne un’altra. L’ultima dell’elenco. Allora l’incarnazione del punto 8 risponde che sì, la 38 è perfetta, e quando lo dice tiene la testa alta. «Fuori rosa è termine aspro. Il giocatore non è funzionale alla rosa costituita d’accordo con l’allenatore», sono state le parole del dg Marotta, nel silenzio di sindacato e Figc: nessuno si chiede se sia normale che un calciatore della Juve non conosca il suo nuovo stadio.\r\nLa sera dell’inaugurazione Amauri vedeva i cartoni coi bambini, Cindy di 9 anni e Hugo Leonardo di 4. Scivolato fuori anche dal sito Internet. Magari sarà aspro pure il termine mobbing, emarginazione di sicuro va bene. Se fosse un allenatore, sarebbe un esonero. È oggi un centravanti in congedo, nonostante 7 gol nelle ultime 11 partite in A (con il Parma). Più di lui solo Cavani. Non Di Natale, non Ibra, né Matri o Vucinic. C’è chi non lo dimentica. In mail gli ha spedito parole di conforto Stefano Borgonovo. Amauri ne è colpito: «Devo incontrarlo». Altro che fare c ausa, il rancore indebolisce. Piuttosto ci sono i bambini da prendere a scuola con la Chevrolet Camaro gialla, quella dei Transformers. C’è la casa da cercare in collina per lasciare l’albergo. C’è tanto calcio in tv da vedere, soprattutto le squadre del suo passato (Napoli, Chievo, Palermo, Parma). È il bisogno di tifare per qualcuno. E poi c’è quella visione azzurra che ritorna. Quando Prandelli lo chiamò in nazionale la prima volta, gli diedero la notizia che stava giocando coi bambini. Cindy lo tirò giù come fanno i difensori in area, gli diede un bacio e disse bravo papà, visto che sei forte? E se sei forte, vai avanti così.\r\n\r\nCredits: La Repubblica\r\nFracassi Enrico