L’impero finanziario di Fabio Capello e i 16 mln che deve al fisco
Le casse piene di profumo firmato ‘Fabio Capello’ le hanno conservate per due lunghi anni. Poi, visto che nessuno le reclamava, i doganieri le hanno distrutte. Non se ne è salvata nemmeno una. Un peccato per i fan dell’allenatore della Nazionale inglese, che non potranno saggiare l’aroma del parfum del loro idolo. Un peccato, in teoria, anche per la sua ex squadra, la Roma. Che quelle confezioni, insieme a sciarpe e altri articoli firmati da don Fabio, le aveva comprate a carissimo prezzo. Oltre due milioni di euro, pagati direttamente alla Sport 3000, una società creata dall’allenatore più elegante del mondo in Lussemburgo. L’accordo prevedeva altre forniture, ma i Sensi impugnarono il contratto appena Capello passò sulla panchina della Juventus: sarebbe stato difficile piazzare nella Capitale prodotti marchiati con il nome di chi, tra i tifosi della Magica, veniva considerato niente più che un ‘traditore’. L’eau de toilette che nessuno s’è mai potuto spalmare sulla mascella, però, ha fatto la fortuna del fisco: seguendone la fragranza, gli ispettori dell’Agenzia delle entrate sono infatti riusciti a disegnare i confini dell’impero finanziario del mister, scovando tra le pieghe di trust e società off shore un’evasione da 16 milioni (multe comprese) e costringendo il coach friulano a pagare oltre 5 milioni di euro, tra imposte dovute e sanzioni accessorie. Le prove contro le società intestate a Capello e ai suoi familiari erano schiaccianti.\r\n\r\nOra si attende la conclusione dell’inchiesta penale, spostata a dicembre da Torino a Roma: avendo accettato l’accertamento con adesione, gli indagati (in tutto una decina, oltre a Capello l’avviso di garanzia è stato recapitato ai due figli, alla moglie e al alcuni commercialisti) potrebbero cavarsela con un’ammenda.\r\n\r\nLa guerra tra Fabio e l’erario è storia antica. Il primo round risale al 1999, quando l’allenatore trasferì la sua residenza a Campione d’Italia, l’enclave italiano in territorio svizzero che consente ai suoi 2 mila abitanti di abbattere le imposte dirette e godere di vari benefici fiscali. Capello, in un anno intero, non ci mise praticamente mai piede: indagato dalla Procura di Como per concorso in abuso d’ufficio e falso, nel 2002 patteggiò tre mesi, commutati in una multa da 2.300 euro. Dopo qualche tempo, il match con i finanzieri ricomincia. Capello si è spostato dalla Roma alla Juve, e dopo la bufera Calciopoli è tornato al Real Madrid. È diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia: secondo i dati della sua dichiarazione dei redditi, nel 2005 con 7,6 milioni di euro s i piazzava al trentaseiesimo posto tra i contribuenti più facoltosi. Due posti dietro il banchiere Alessandro Profumo, ma tre posizioni avanti a Luca Cordero di Montezemolo. Già: l’allenatore nato 63 anni fa a Pieris ha sempre investito bene i soldi guadagnati con il calcio. L’eroe di Wembley (nel 1973 da calciatore segnò il gol che permise per la prima volta all’Italia di battere gli inglesi in casa) fonda presto la holding F. C. 1992, la prima cassaforte di famiglia: gli interessi spaziano dall’immobiliare all’industria dei giochi. Gli affari vanno a gonfie vele, tanto che la holding si fonde nel 2001 con la Fingiochi di Enrico Preziosi, l’imprenditore che controlla la multinazionale Giochi Preziosi. Nel 2006 la Procura di Torino, su segnalazione dell’Agenzia, comincia a lavorare sulle società e sui redditi percepiti nel periodo 2001-2005. I filoni sono due. Il primo riguarda i rapporti tra la Roma e la Sport 3000, a cui il club capitolino ha versato in tutto 4,8 milioni di euro. Inizialmente gli investigatori credono che profumi e società siano fittizi, poi scoprono che, al contrario, le boccette esistono davvero e che la società è operativa. L’accordo con i giallorossi prevede che i Sensi acquistino da don Fabio profumi e altri prodotti, per poi ridistribuirli sul mercato. “Una tecnica classica”, spiega un investigatore, “che le società sportive usano per dare una sorta di bonus ai loro dipendenti: altleti e allenatori lo stipendio devono pagarlo per forza in Italia, mentre escamotage di questo tipo permettono di pagare aliquote molto più basse”.\r\n\r\nIl fisco ha, di fatto, riportato la società lussemburghese in Italia, recuperando le tasse che la stessa aveva evaso dichiarando una residenza estera.\r\n\r\nNel solito gioco di scatole cinesi, la Guardia di Finanza scopre poi che la Sport 3000 è controllata al 100 per cento dalla nuova capofila dell’allenatore, The Capello family trust, che è al centro del secondo filone d’inchiesta. La nuova holding di famiglia è localizzata nell’isola di Guernsey nella Manica, un paradiso fiscale finito dieci anni fa nella lista nera dell’Ocse. Capello e famiglia, secondo gli uomini dell’Agenzia delle entrate, avrebbero usato il ‘trust’ per evitare di pagare le tasse sulle plusvalenze, ottenute con la vendita di azioni della Giochi Preziosi. Un pacchetto rivenduto all’attuale patron del Genoa, che proprio nel Guersney (che coincidenza) ha aperto la sua cassaforte. Una transazione che porta nelle tasche del mister e dei suoi figli oltre 3 milioni di euro esentasse. Anche in questo caso l’erario ha considerato l’operazione come se fosse stata realizzata in Italia, e ha chiesto (e ottenuto) una aliquota del 12,5 per cento. Quella prevista dalla legge.\r\n\r\nBeccato sul fatto, Capello ha voluto chiudere i conti in fretta, firmando all’Agenzia un assegno da 5 milioni. Una somma record. Quasi un intero anno di stipendio da coach dell’Inghilterra. Non si strapperà le vesti, visto che è uno degli allenatori più bravi e pagati del globo. A Londra, dove bazzica tra stadio, teatri, musei e ristoranti che servono roast beef al sangue, lo amano tutti: la squadra di Beckham viaggia tranquilla verso il Mondiale in Sudafrica. Qualche nuovo grattacapo potrebbe arrivargli, ancora, dalla capitale: è dell’anno scorso la notizia dell’iscrizione di Capello nel registro degli indagati del tribunale di Roma. I pm lo accusano di falsa testimonianza durante la sua deposizione al processo Gea, che ha come imputati eccellenti Luciano e Alessandro Moggi. Troppo reticente alle domande, disse Luca Palamara in udienza: “In questa sede chi è chiamato a testimoniare è obbligato a dire la verità”, evitando i ‘non so’ e i ‘non ricordo’. La partita con la giustizia non è ancora finita.\r\n(L’Espresso)